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s p a s i m o

by Rosaria Lo Russo

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about

Nella sua attività trentennale, Rosaria Lo Russo si è sempre proposta sia come scrittrice che come “performer” - esecutrice in voce di testi propri e di altre potesse quali Anne Sexton (della quale la Lo Russo è anche la traduttrice italiana), Amelia Rosselli, Patrizia Vicinelli, solo per citarne alcune. Due forme che in realtà sono tutt'una dato che, come chiaramente dice la stessa Lo Russo, il poeta è da sempre stato anche cantore, aedo, che agisce nella comunicazione vocale, prima che in quella scritta.
Con Spasimo Rosaria Lo Russo salda definitivamente le sue due anime poetiche, facendosi dicitrice di brani di altri autori e componendoli in un'unica sinfonia vocale in nove movimenti. Ben lungi da essere mera sequenza di versi, Spasimo si dà come opera unitaria, piena di solidi tessuti connettivi e, in definitiva, appare come un originale poetico, un testo inedito di cui la Lo Russo, pur non avendo scritto neanche uno dei versi eseguiti, risulta autrice a tutti gli effetti.
Una simile unità – e la conseguente autoralità – non sarebbe possibile sulla pagina scritta, ma si dà solamente e mirabilmente nella “messa in voce”, nella concertazione fonica. È la voce che ri-scrive i versi, è la composizione ritmico-sonora a conferire loro ulteriori aperture di senso. Ed è ancora la voce a estrarre dalle parole scritte quel che il segno grafico non è in grado di esprimere: il respiro, il gemito, lo spasimo.
Ma, per “scrivere” e farsi autrice, questa voce tutto fa tranne che imporsi come soggetto recitante, iattanza del grande attore (Gassman legge Leopardi...). Questa voce è voce non dell'io ma del verso stesso, è voce e-statica, voce del “poiein”. Filologia intuitiva, come ricorda la stessa Lo Russo. Filologia dell'atto, aggiungerei io.
E allora, sempre seguendo le parole della poetessa, è vero che questo splendido lavoro poggia sulla presenza di continui ossimori. Essere autori senza aver scritto nulla. Imporsi come autore vocale negandosi come soggetto re-citante. Un gioco di negazioni e dif-ferenze che dà vita a un opera poetica senza precedenti, almeno che io sappia.

Massimo Sgorbani

credits

released March 18, 2016

Spasimo/Assolo è un gesto assolutamente gratuito. Un atto devozionale. Senza altro fine che quello, necessario come il respiro, di dare fiato (rendere il respiro) alle parole in versi di alcune poesie che si sono accostate alla mia voce e al mio respiro in un determinato, irripetibile momento di lettura della durata di molti anni, una durata assoluta. Quindi questa registrazione accade in un determinato irripetibile luogo e tempo della voce, in un momento specifico della carne (che conosce solo momenti, stati variabilissimi, che in questa variabilità si riflettono nella voce), che essendo il fiore di una durata è per ciò stesso un atto fuori dal tempo, fuori dallo spazio, fuori dalla performance pubblica: lo studio di registrazione restituisce una durata, una sequenza, che si offre ad un ascolto immediato, pur essendo una costruzione – tramite cut up millimetrici – lunga e laboriosa, questa sì, successiva al momento della registrazione che invece è una presa diretta, estatica, del rifarsi voce del testo scritto. La decisione di fare (poièin) una così lunga e immediata restituzione vocale, di rifare questi versi con il loro mezzo interiore e inferiore – la voce -, è dovuta all’ossimoro permanente della ricerca: queste parole e il corpo che le dice e le suona, e i rumori che la voce inventa ronzando intorno e alla radice e agli echi di queste parole, sono mie in quanto la mia voce le accoglie e le coglie nel tempo e nello spazio della registrazione, sono mie qui e ora, ma non sono mie (o lo sono, nel caso dei versi di Anne Sexton) soltanto come traduzione (fonica) di una traduzione (scritta): una restituzione reciproca, e non ci si ricordi più quale nasce prima se il testo originale o quello tradotto, anche quando è Cristina Campo a parlare, a suonare J. Donne. Franto e lento, macchinoso e estemporaneo, il processo vocale e fonico si mostra in un lavoro consegnabile all’ascolto, ma per pochi, forse idealmente per i F. P. di cui scrive in versi Elsa Morante, per un pubblico ideale, per un ascoltatore ideale: ovvero per nessuno; la voce non si rivolge a nessuno, semplicemente dice il canto, il canto interno al testo. E’ il risultato di un processo segreto e pieno di vergogna, ma si dona come atto performativo, ad alta voce: altro ossimoro estatico. Da molti anni faccio letture pubbliche di poesia, per così dire semplificando, a tema sacro. Poesia medioevale moderna e contemporanea, il tempo è escluso, è fermo, è un assoluto. Da sempre la mia riflessione vocale (cioè critica, filologica: la voce è un filologo intuitivo sintetizza saggiamente in uno scritto su un numero del “Verri” di qualche anno fa Fabrizio Frasnedi) cerca di interpretare testi di autori, di ogni tempo e latitudine, che hanno osato affrontare il Sacro, il Tremendo, l’Indicibile, l’Ineffabile. L’estasi, che di per sé sarebbe invece il non luogo e il non tempo del Silenzio e della stasi del corpo, si dice nella riscrittura fonica dei versi accostati fra loro per rapporti intrinseci oramai quasi ineffabili, dopo tante scremature e ripensamenti e tagli e montaggi e rimontaggi, freneticamente, per vincoli sottili, senza nessuna altra intenzione che andare a tentoni localmente fra le parole di un Sacro che continua a sfuggirmi, invadermi, ossessionarmi, affiorare e inabissarsi, in una manducatio e ruminatio monacale la cui cella è lo studio di registrazione: luogo di tutte le possibilità, luogo della presa diretta dello stato d’anima. La parola che osa infrangere l’attonimento estatico col dire il Sacro è un gesto sempre ossimorico, una vertigine che non può fare altro che tendersi fra estremi indicibili per dire qualcosa: scrivere il sacro è cercare il Buono e il Bello tramite un gesto inevitabilmente sacrilego e solitario, e questo è per me praticare la ‘violenta carità’ (Riccardo da San Vittore) del dire lo strazio e la grazia contemporaneamente, un altro ossimoro, un’altra vertigine. Quindi la poesia che cerca di dire il sacro non può essere che sacrilega, irreligiosa, anche quando la lettera sembra canonica. Perché se è grande poesia – ma che significa grande poesia? Di certo la poesia si vede grande al momento dell’incontro fra chi scrive e chi legge, in quel dato momento e non in altri o non sempre e comunque, così rari sono gli incontri quando si fa poesia - non mira a ribadire un dogma (sa che non ce n’è bisogno, di dogmi, in poesia), ma a cavare dai dogmi un piccolo bene, un piccolo bello, certa solo del fatto imperioso dell’Amore, del suo strazio e della sua beatitudine: l’atto candido e osceno delle poesie di Santa Teresa di Lisieux sono il primo atto di questo Spasimo. Spasimo intorno alla Madre, Maria, l’amore primario, e il Cristo, Il Figlio, il Figlio dell’Uomo. La Chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo ispira il titolo. Cosa di più ossimorico di una cattedrale a cielo aperto, una cattedrale di rovine? Accoglie nella paura. Il Terrore del Sacro. Il freddo e il calore del Sacro. Il rifiuto e il godimento del Sacro: lo spasmo viscerale dell’eccitazione e della repulsione. La “mistica del cervello” delle variazioni di Amelia Rosselli è un prodromo testuale di questo Spasimo/Assolo vocale, perché la parola costruita in versi finge e rinnega l’abbandono dell’estasi, ne fa parola, pensiero, negazione, nega l’estasi, si limita ad evocarla, ad invocare Maria, ad invocare Cristo oltre le Sacre Scritture, come se queste non bastassero a colmare il divario fra desiderio e parola scritta, come se la tensione spastica al sacro non avesse un limite nella sua fame carnale di Esperienza fisica (la Voce in quanto emessa da un organo sessuale secondario, inferiore, l’organo sessuale non deputato alla riproduzione, assoluto), fino al rinnegamento, allo sfinimento della tensione e poi al suo riaccendersi. Spasimo/Assolo è un solo Testo ma a più voci, e dove parlano le voci invece che la persona la parola diventa mistica, una mistica carnale come voleva che fosse la poesia tutta Maria Zambrano. Spasimo/Assolo è un gesto vocale non teatrale (non implica un pubblico, un commercio coi corpi in praesentia): innocente e ingenuo e quindi incollocabile (nel tempo e nello spazio) per vocazione. Una vocazione all’incollocabilità del gesto performativo: solo un atto di ri-conoscenza, non di esibizione. Un canto sulla corda tesa fra i due estremi violentissimi dell’Orrore e della Grazia, senza inizio e senza fine, un canto parlato che registra i suoni e i rumori che precedono e seguono la parola affrontando stadi impermanenti di equilibrio e rotture improvvise. La voce si rompe, la parola è un groppo, o un bolo, in gola, grida lo spavento e la beatitudine dei bui e delle luci. La Luce non c’è, raggira il Buio. Perché il Bello sia Bene, una pace sonora, una pace dissonante, mai pacificata, mai compiaciuta, sempre in difetto di, in colpa per, sempre e comunque impermanente, spasimo, lo scandalo del bene dentro il male e del male dentro il bene, lo scandalo della vita inferiore, con le sue croci ovunque a mostrare il sacrificio mortale del creaturale. Spasimo: amo qui e ora come un adolescente, vado alla radice nuda dei denti, vado dove la saliva gorgoglia, dove ingoiare è un suono piccolo per varcare distanze siderali restando nella fragilità di un corpo femminile che non dice Io, che è l’Animale Umano di Campana, la Figlia del Non Io beckettiano, la Ragazza Cristica sextoniana: “Non sono una donna più di quanto Cristo fosse un uomo”. Una bocca assoluta nel buio assolve la voragine di ogni origine e fine del dire in versi, del suonare le parole, risolve i groppi, i boli, gli accozzi e i legamenti sillabici, i ritmi variabili. Un buio nel buio, solo ascolto, solo restituzione e resa di sillabe e ritmi. Così l’equilibrismo del singulto e del sorriso è lo stato fonico della Vita Inferiore. Io sono la Vita Inferiore che canta il suo Niente, questo il filo conduttore, che conduce gentilmente e rabbiosamente, di spasmo in spasmo, alla soffice e soffiata santa nichilitate jacoponica, quel lamento che accompagna la nascita, che mantiene in vita, che conduce alla morte come liberazione, cantilenando, estasi del ritmo e ritmo dell’estasi. Chi rantola, chi latra, il morente, la nostra vita inferiore è immensamente aperta all’Aperto, allo Spasimo dell’esistere che non sa nulla dell’Essere e quindi prega per essere qualcosa al cospetto della Luce mistica. E che per gratitudine all’Infanzia dona la sua Esperienza, una delle sue Esperienze, una delle tante piccole esperienze umane possibili, come un’epifania sempre in attesa, con stupore e gioia disperata e beata.

Qui Io/Poeta, nel senso stretto e anonimo del termine, faccio tutte le voci, tutti i suoni, i respiri, i rumori. Massimo Liverani registra e monta il registrato secondo la mia regia. La gran parte dei versi che aprono e conducono al termine del canto, apparendo, inabissandosi, riapparendo, sono lacerti da La vita inferiore di Vito Bonito (e in piccola misura da altre sue opere). Oltre a questo, in sequenza, per la mia traduzione Anne Sexton, Per l’anno della demenza; Gesù, l’attore, fa la parte dello Spirito Santo; dagli Inni di John Donne, La Croce (tradotta da Cristina Campo); Sexton, Furia delle albe, John Donne, il XIV dei Sonetti Sacri (trad. C. Campo); Sexton, La passione del Coniglio Matto; Jacopone, stralci dalle Laude LXXXIV e XCI. Nove tracce, solo numerate, per tornare all’anonimia originaria della poesia.

Consiglio l’ascolto a volume sostenuto o in cuffia, al buio.

Rosaria Lo Russo

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Rosaria Lo Russo Florence, Italy

Rosaria Lo Russo, poeta, lettrice-performer, attrice, traduttrice e saggista.

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